Ritiro dei ghiacciai

Tra le conseguenze più immediate ed evidenti del riscaldamento globale della Terra c’è la fusione dei ghiacci e la regressione dei ghiacciai. I ghiacciai sono accumuli di ghiaccio perenne, cioè che si mantiene in tutte le stagioni dell’anno e può essere composto da strati vecchi di migliaia di anni. Il ghiaccio si forma per compattazione della neve che si accumula eliminando gran parte dell’aria in essa presente: nella neve l’aria è il 90% in volume, nel ghiaccio questo volume scende al 20% circa. In questo modo il ghiaccio assume l’aspetto di una massa compatta e densa (comunque la sua densità è circa 917 kg/m3, mentre la densità dell’acqua dolce è 1000 kg/m3).

Per comodità e motivi didattici i ghiacciai sono classificati in continentali e montani. I ghiacciai continentali sono localizzati nelle zone polari e ad elevate latitudini: in Antartide, Groenlandia, Canada e Islanda. Sono la maggior parte dei ghiacciai del Pianeta ed hanno una caratteristica forma a lente, con la parte centrale, detta bacino collettore, che alimenta il ghiacciaio e le parti periferiche, dette bacino ablatore, dove prevale la fusione del ghiaccio.

I ghiacciai montani hanno una caratteristica forma a lingua e, sotto la spinta della forza di gravità, si muovono verso valle trasportando detriti rocciosi (morene) e formando un fronte glaciale dove prevale la fusione (bacino ablatore). La zona di accumulo del ghiaccio (bacino collettore) si trova a quota più elevata e alimenta il ghiacciaio con le precipitazioni nevose.

Quasi tutti i ghiacciai sono monitorati, misurati e osservati, alcuni da oltre un secolo. Tranne qualche eccezione, quasi tutti sono in fase di forte regressione, sia come dimensioni sia come spessore. Oltre alle misurazioni al suolo, anche le immagini satellitari confermano questo fatto. Ad esempio ci sono immagini satellitari (satelliti Landsat della NASA) di alcuni ghiacciai del Tibet, definito “il terzo polo” per il gran numero di ghiacciai e la più grande riserva d’acqua dolce al di fuori delle regioni polari, che dimostrano questo inquietante fenomeno. La prima immagine in alto risale al 1987 e la seconda al 2021: in questo intervallo di tempo (34 anni) è evidente la regressione dei ghiacciai o la loro scomparsa e un modesto aumento dell’estensione a causa dell’afflusso di acqua proveniente dalla fusione dei ghiacci. Crediti immagini: (earthobservat ory/NASA, Internazionale n. 1433). Per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Ritiro_dei_ghiacciai ; https://www.focus.it/temi/fusione-dei-ghiacci . Lo scorso autunno anche Greenpeace Italia e il Comitato Glaciologico Italiano (CGI) hanno pubblicato il rapportoGiganti in ritirata: gli effetti della crisi climatica sui ghiacciai italiani” e hanno lanciato un allarme sullo stato di salute di queste importanti riserve d’acqua dolce e sentinelle della crisi climatica.

Yeti: dalla leggenda alla realtà

Dante Iagrossi. Introduzione. Fin dalla notte dei tempi, creature terrificanti hanno popolato l’immaginario locale e anche collettivo, producendo credenze e leggende, che ancora esistono, anche in letteratura. Basti pensare , tra gli altri, al famigerato mostro di Lochness, o all’abominevole “uomo delle nevi”, lo Yeti.

Questa parola deriva da “yeh-teh”, termine che può essere tradotto nella lingua sherpacome “Quella cosa là” o “Uomo delle rocce”. Un enorme scimmione, con altezza tra 1,80 e 2,40 m (femmine) e dai 2,30 ai 3,15 m per i maschi, coperto da una fitta pelliccia bianca o argentata, che lascia scoperta solo mani e piedi, dalle braccia assai lunghe e folta capigliatura.

Avvistamenti e impronte

Dopo i racconti di esploratori in zone sulla catena himalayana, risalenti all’inizio del 1400, anche nel primo Ottocento un magistrato inglese, R.R. Hodgson, parlò di una creatura pelosa priva di coda. In seguito, il maggiore L. A. Waddell, nel Tibet, ad un’altezza superiore ai 5.000 metri, raccontò di aver visto da vicino un essere simile, di aspetto quasi umano, alto almeno un paio di metri. Notò che “il suo sguardo era di una tristezza indicibile, pari soltanto alla desolazione delle plaghe himalaiane inospitali, in cui si muoveva”.

Poi si sono trovate più volte grandi impronte. Nel 2019 ne sono state fotografate e diffuse alcune lunghe 81 cm e larghe 38 cm, da parte di esponenti dell’esercito indiano, che hanno affermato quindi di aver trovato le prove incontrovertibili dell’esistenza dello yeti. La comunità scientifica si è mostrata piuttosto scettica a riguardo, notando che tali impronte appartengono ad un solo piede, come se l’essere procedesse soltanto a salti.

Comunque, più di recente, il 27 novembre 2021, ne sono state trovate altre, nei pressi di Rolwaling (Nepal centro-orientale), al confine col Tibet.

Indagini scientifiche e conclusioni

Per molti anni sono stati approntati appostamenti, detti “fototrappole”, in certe zone, passeggiate lungo sentieri del bestiame, oltre a interviste a persone locali. Tutto questo insieme grazie anche al reperimento di segni ben precisi, come scavi, impronte e feci, ha permesso di stabilire in modo sicuro che si tratta dell’orso bruno tibetano (Ursus arctos pruinosus), grande mammifero carnivoro, che vive in ambienti ad alte quote, associato a marmotte himalayane e altri piccoli roditori. Una sua caratteristica distintiva sarebbe la presenza di collare di colore giallo, tipo sciarpa.

Pericoli

Gli studiosi hanno ipotizzato ad oggi un numero di esemplari esistenti intorno alla ventina. Però questi rari orsi sono in pericolo per il bracconaggio, per l’allargamento continuo degli insediamenti umani, i pascoli eccessivi e per la diminuzione delle loro prede abituali. Dante Iagrossi (foto da Pixabay)