PLASTIC PLANET

Dante Iagrossi. Ormai è divenuto il principale nemico della salute dei nostri mari ed oceani, ma potrebbe compromettere seriamente anche la nostra. L’inquinamento da plastiche continua e sta assumendo forme colossali, difficilmente controllabili. Con conseguenze davvero gravi, di cui purtroppo non ci rendiamo conto abbastanza, ma da fronteggiare in modo repentino ed efficace.

Le plastiche ed i loro usi

Quasi tutti i materiali plastici si ottengono dal petrolio, rompendone le lunghe catene a base di carbonio in altre più piccole (monomeri), riagganciate poi in nuove catene, polimeri. Due le categorie principali:

  • termoplastiche, ammorbidibili col riscaldamento e modellabili.
  • termoindurenti, che non possono essere più modellate.

Le materie plastiche vengono poi trasformate in una serie di tantissimi manufatti: buste, piatti, bottiglie, contenitori vari, ecc.

Ci sono 7 fondamentali tipologie di plastica, tra cui:

PET (Polietilene Tereftalato), che costituisce il 96% di bottiglie e contenitori. Può essere facilmente riciclata per realizzare svariati oggetti.

HDPE (Polietilene ad alta densità), molto usata per contenitori di succhi, sacchetti per spesa, flaconi e giocattoli. La più riciclata, per la buona resistenza al caldo e al freddo.

PVC (Cloruro di polivinile), adoperata per piastrelle, scarpe, grondaie, infissi, con varie tossine. Difficile da riciclare.

LDPE (Polietilene a bassa densità), per pellicole per cibo, bottiglie, sacchetti per spesa e coperchi flessibili.

Dati allarmanti

Circa 8,8 milioni di tonnellate di plastica entrano in mari ed oceani, di cui l’80% deriva da fonti terrestri. Con questo ritmo, si prevede che forse entro il 2050 il peso della plastica supererà quello dei pesci! Inoltre, il 40% di tutta la plastica prodotta è adoperata una sola volta (monouso): ad es. le cannucce e i cottonfioc vengono subito buttati via. L’Italia risulta la prima nazione in Europa (e seconda nel mondo) per consumo di acqua minerale imbottigliata: più di 11 miliardi di bottiglie all’anno! Per smaltire un sacchetto di plastica tradizionale, occorrono dai 10 ai 30 anni circa, molto maggiori quella di oggetti di plastica dura.

Il destino della plastica (e conseguenze)

Mediamente nel mondo solo il 15% circa della plastica viene riciclata, la maggior parte o è rilasciata in ambiente, oppure raccolta in modo differenziato, per finire poi dentro discariche e termoconvettori.

La plastica in acqua, per l’azione del vento, di correnti marine e onde, ha già formato sei gigantesche isole, le “Plastic Soups”, di cui due nel Pacifico, due nell’Atlantico, una nell’Indiano ed una nel Mediterraneo, tra la Corsica e la Toscana. Inoltre, per l’azione continua delle onde e del sale, la plastica si frammenta in pezzetti di lunghezza inferiore ai 5 mm: le microplastiche. Queste tendono ad assorbire pesticidi, fertilizzanti, scarichi industriali vari, cosmetici e detersivi. Gli organismi marini o le scambiano per cibo o comunque le ingoiano casualmente, trasmettendole nelle catene alimentari. Si hanno perciò da un lato, gravi disturbi di malnutrizione ed occlusione di stomaco e vie respiratorie, dall’altro, l’assorbimento delle sostanze chimiche, che incidono sul sistema ormonale e nervoso. Ormai certi uccelli marini soffrono di “plasticosi”, con danni permanenti all’intestino. Sono stati trovati residui di microplastiche e sostanze chimiche non solo in animali, ma anche in persone, nel sale marino, nell’acqua minerale, persino nel miele, e nell’aria respirata.

Che fare?

Innanzitutto, modificando certe nostre abitudini quotidiane, conviene rifiutare il più possibile la plastica monouso, usare borse e contenitori riusabili, evitare le stoviglie e le cannucce di plastica. Per prevenire ulteriori aumenti in acqua di oggetti di plastica, si dovrebbero creare sistemi di blocco alle foci di fiumi, oltre a ripulire periodicamente coste e spiagge da rifiuti. Qualcuno ha creato appositi apparecchi per aspirare le plastiche almeno in superficie, che però hanno ancora un utilizzo assai limitato.

In alternativa alle plastiche più adoperate, sono state create tre tipi di bioplastiche a partire sostanze naturali, (come cellulosa, fecola di patate e barbabietole da zucchero), tra cui quella biodegradabile a contatto con l’aria e quella compostabile, per l’azione di enzimi, batteri e funghi. Purtroppo le bioplastiche, hanno alcuni inconvenienti: costi maggiori e sfruttamento di legname boschivo.

Sono tanti i volontari che si offrono in queste iniziative importanti per un futuro migliore, non solo per noi, ma per tutto il mondo vivente, come Plastic Free, Mare vivo, Mare Pulito e 4Ocean. Iagrossi Dante (foto da Pixabay).

Onu: Trattato per la protezione dell’alto mare

Sabato 4 marzo 2023 è stato un giorno fondamentale per la protezione dell’ambiente marino. Dopo oltre quindici anni di trattative, negoziati, rinvii e ripresa delle discussioni, i delegati di 193 Paesi dell’ONU, a New York hanno raggiunto un accordo per la protezione degli Oceani e dell’alto mare.

Nei decenni scorsi, la protezione dell’ambiente marino si è limitata alle zone costiere istituendo, in vari Paesi, Parchi e Riserve marine. In Italia c’è un’Area sovranazionale protetta, il Santuario dei Cetacei, che comprende le zone costiere di Toscana, Liguria, Corsica, parte settentrionale della Sardegna e la costa mediterranea orientale della Francia. A questa si aggiungono 27 Aree marine protette e due parchi sommersi: Baia, a nord del Golfo di Napoli e Gaiola, sempre nel Golfo di Napoli.

Troppo a lungo invece l’alto mare è stato ignorato negli impegni sulla protezione degli ambienti, della biodiversità e della natura in generale. L’accordo dei giorni scorsi riguarda proprio questa zona del Pianeta, che ricopre circa la metà della superficie della Terra. Quest’ambiente è strettamente collegato ai mutamenti climatici in atto perché assorbe una gran parte della CO2 emessa dalle attività umane, soprattutto col consumo dei combustibili fossili. Perciò svolge un ruolo fondamentale per limitare il riscaldamento globale in atto e le sue nefaste conseguenze.

L’umanità e gli ambientalisti non possono ancora cantare vittoria però, perché il testo che non è stato ancora pubblicato, dovrà essere analizzato dai servizi giuridici della Nazioni Unite, ratificato e tradotto nelle sei lingue ufficiali dell’ONU (arabo, cinese, francese, inglese, russo e spagnolo).

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, su Twitter ha scritto che si tratta di una “vittoria del multilateralismo e degli sforzi mondiali per contrastare le pratiche distruttrici che minacciano la salute degli oceani, oggi e per le generazioni a venire”. Si spera che il testo definitivo, quando sarà pubblicato, corrisponda alle aspettative dei popoli e degli esperti di protezione ambientale e crisi climatica.

Si sa che l’accordo si articola in tre parti fondamentali: la tutela del 30% degli oceani, la condivisione delle risorse genetiche marine e criteri più vincolanti per ogni attività umana in questi ecosistemi. Inoltre si istituisce una conferenza delle parti (Cop) e un forum simile a quelli sulla biodiversità e sul cambiamento climatico.

I delegati dei vari Paesi hanno hanno chiarito che le risorse della Terra vanno trattate in modo più rispettoso e più responsabile. Nelle zone tutelate dell’alto mare sarà limitata la possibilità di navigare, pescare e sfruttare i fondali. La condivisione delle risorse genetiche ricavate da piante e animali marini potrà essere utile per l’umanità in vari settori: farmaceutico, alimentare, industriale.

UN GRANDE PUZZLE MOBILE

Dante Iagrossi. Secondo A. L. Wegener, più di duecento milioni d’anni fa, i continenti attuali erano raggruppati in un unico blocco, la Pangea, circondato da un solo oceano, la Pantalassa. La sua ipotesi, la deriva dei continenti, sviluppata dal 1912 al 1929, era suffragata da varie osservazioni: in primo luogo, la singolare forma della parte orientale del Sud America che si “incastra” bene con la costa occidentale africana, (e lo stesso si può dire di Antartide ed India rispetto all’Africa orientale, o dell’Eurasia rispetto al Nord America). Inoltre anche il ritrovamento di fossili di stessi animali e vegetali e rocce uguali ai due lati dell’Oceano Atlantico faceva pensare che una volta fossero unite. Poi, circa 180 milioni di anni fa, la Pangea potrebbe essersi divisa in due super continenti: Laurasia e Gondwana, separati da un oceano. In seguito, ci furono ulteriori frammentazioni, fino alla situazione attuale. Più tardi, nel 1960, Harry Hess intuì che l’espansione dei fondi oceanici giustificava il meccanismo della deriva dei continenti. In altre parole, non si spostano solo i continenti ma le intere zolle di cui essi fanno parte. Invece Wegener non era riuscito a fornire motivi convincenti dello spostamento, che attribuiva erroneamente in parte alla forza centrifuga del moto rotatorio terrestre, che faceva allontanare le masse dai poli verso l’equatore ed anche all’attrito prodotto dalle maree terrestri che, rallentando la rotazione, sollevano la costa dal substrato.

La crosta, strato superficiale della crosta terrestre, si presenta ora formata da una ventina di placche, che continuano a muoversi, anche se in modo assai lento e, intanto, si formano montagne, fosse, si generano eruzioni vulcaniche e frequenti terremoti. Le placche non sono ferme, ma in moto continuo, anche se non percepibile direttamente, come zattere sul mare, poggiando sull’astenosfera sottoposta ai moti convettivi causati dal calore emanato dal nucleo.

Ci sono tre principali modalità di movimento:

a) Divergenza (allontanamento), per la fuoriuscita di magma dall’astenosfera, che genera espansione dei fondali oceanici (ad una velocità da 1 a 20 cm circa all’anno) o la formazione di fosse tettoniche, come quella tra zolla africana ed arabica.

b) Convergenza (avvicinamento), che può causare montagne per placche continentali (Himalaya, Alpi, Appennini, Balcani e Pirenei), o archi insulari vulcanici, per lo sprofondamento di zolle oceaniche, una sotto l’altra, col magma risalente. Se si tratta dello scontro tra placca oceanica e continentale, per lo sprofondamento della prima, si formano fosse e catene montuose.

c) Movimento trascorrente (scorrimento), con formazione di terremoti anche di alta intensità (faglia di Sant’Andrea in California).

Ma quale sarà il futuro dei continenti? Mantenendo lo stesso verso e la stessa velocità di spostamento attuale, i continenti si dovrebbero riavvicinare nel corso di circa 300 milioni di anni, con la fusione dell’America del Nord e del Sud, la loro migrazione verso settentrione, causando un urto con l’Europa e l’Asia, nella zona del Polo Nord. Per quanto riguarda l’Australia, anch’essa in tempi geologici continuerà nel suo movimento verso il Nord, assieme all’India. In questo modo, si dovrebbe formare un nuovo super continente, soprannominato “Amasia”. Allora sarà possibile in pochi minuti passare dall’Italia alla Croazia o alla Tunisia, senza dover attraversare il Mar Adriatico o il Canale di Sicilia… e tutt’intorno un gigantesco oceano! Dante Iagrossi. (foto: “Il Messaggero”).

UN MONDO VARIEGATO DENTRO AL MANTELLO

Dante Iagrossi. Il mantello, secondo e maggiore strato terrestre, compreso tra i 30 e i 2900 km di profondità, è costituito da uno strato superiore, con astenosfera, una parte intermedia ed un’altra inferiore. In passato si riteneva che avesse una composizione abbastanza omogenea, a base di Silicio e Magnesio, ma gli ultimi studi e i dati raccolti ne prospettano una visione alquanto diversa. In particolare, la zona prossima al confine tra queste due parti presenta enormi catene montuose, al cui confronto il monte terrestre più alto, l’Everest appare davvero piccolo. Infatti, mediante uno studio accurato di onde sismiche, generate da devastanti terremoti, sono stati individuati un paio di colossali blocchi solidi, i cosiddetti ”blob”, di cui si sono misurate anche le dimensioni, le altezze e le densità. Uno si trova sotto il continente africano ed è alto circa 1000 km, l’altro sotto l’Oceano Pacifico, di altezza inferiore. Esistono anche vaste zone pianeggianti, forse aree di contatto intenso tra mantello superiore ed inferiore, mentre le vette corrisponderebbero a quelle di minore contatto.

Un’ altra scoperta inattesa è la presenza di enormi quantità di acqua, pari almeno a quella degli oceani, nella zona di transizione tra mantello superiore ed inferiore, tra i 440 e 660 km di profondità. Essa non sarebbe però liquida, ma ionizzata in cristalli di rinwoodite, minerale forse abbastanza diffuso nel mantello, capace di trattenere gli ioni. Quindi quest’acqua renderebbe certamente più fluida quella parte del mantello.

Oltre che dallo studio delle onde generate dai terremoti, informazioni sulla composizione del mantello stanno venendo dal prelievo di diamanti , che si formano in profondità, (dai 300 ai 1200 km), di origine organica, a fortissime pressioni ed alte temperature. Di particolare interesse un piccolo diamante, estratto ad un chilometro di profondità nella miniera di Cullinan in Sudafrica, contenente un frammento di perovskite (oltre a zirconia e coesite). Secondo alcuni studiosi questo minerale, silicato di Magnesio, potrebbe costituire fino al 93% del mantello inferiore. Il diamante si è formato a circa 700 m di profondità, con pressioni davvero colossali, 240.000 volte quella atmosferica, inglobando la perovskite durante la fase di accrescimento. I diamanti, prima di essere catturati e trasportati in superficie da magmi, possono spostarsi in profondità maggiori, rispetto a quelle di formazione, inglobando frammenti di minerali.

Per quanto riguarda lo strato immediatamente sotto la crosta, l’astenosfera, esso sta risultando più esteso di quanto si pensasse prima, fino a 100-200 km, e fatta di rocce parzialmente fuse, che si deformano se sottoposte a tensione, senza spezzarsi. Queste sono soggette a moti convettivi per il calore del magma trasmesso dal nucleo. Su di essa si muovono le placche della crosta, formando montagne e fosse, dando origine a vulcani e terremoti.

Qualcuno parlando dell’aspetto generale del mantello, ne ha giustamente sottolineato la notevole eterogeneità, paragonata persino ai ben noti dipinti di Pollock, eseguiti con gocciolamenti disordinati di diversi colori, senza alcuno schema prefissato e voluto. Tra monti enormi, pianure estese, acqua “cristallizzata”, diamanti portatori di minerali e continui, caldissimi, flussi di magma, si tratta di un mondo assai ricco e variegato, che non ha di certo un assetto definitivo, ma che promette ancora tante sorprese da scoprire. In ogni caso, un’ enorme deposito di minerali anche assai preziosi e rari. Dante Iagrossi (foto: tiscali.it).

Le galassie

Una galassia è un gruppo di miliardi di stelle tenute insieme dalla forza di gravità e lo spazio interstellare, non completamente vuoto, contiene materia interstellare diffusa costituita prevalentemente da idrogeno.

La nostra Galassia è la Via Lattea e, si stima, sia formata da circa duecento miliardi di stelle. Solo un secolo fa, agli inizi del 1900, si pensava che la nostra Galassia costituisse tutto l’Universo. A partire dal 1920, la costruzione di nuovi e più potenti telescopi consentì di scoprire che nell’Universo ci sono miliardi di altre galassie.

Nel 1924 l’astronomo americano Edwin Hubble riuscì a dimostrare che non tutte le nubi biancastre visibili in cielo con un telescopio sono interne alla Via Lattea. Hubble, utilizzando il telescopio dell’osservatorio di Monte Wilson nella contea di Los Angeles in California, uno dei più potenti dell’epoca, osservò quelle che si supponeva essere nebulose. Scoprì invece che molte erano galassie come la nostra, poste ad enormi distanze e perciò difficili da riconoscere come tali. Poi si scoprì che le più vicine alla Via Lattea sono visibili dall’emisfero meridionale della Terra e sono le Nubi di Magellano (fig. in basso), dal nome del grande navigatore che, tra il 1518 e il 1521, per primo riuscì nella circumnavigazione del globo, come annotò con precisione Antonio Pigafetta nel suo diario di viaggio.

Poiché le galassie osservate erano strutturate in modi diversi, Hubble sviluppò uno schema per classificarle in base alla loro forma. Ancora oggi le galassie sono classificate secondo quello schema proposto da Hubble nel 1926.

a) Le galassie ellittiche hanno una forma sferica o ad ellissoide, di dimensioni molto variabili, da una massa di qualche milione di volte quella del Sole, fino a migliaia di miliardi di volte più grande di quella del Sole. A seconda della forma più o meno schiacciata, sono indicate con le sigle E0 (sferiche), E1, E2, fino ad E7 quelle più schiacciate. Maffei 1 è una galassia ellittica che dista circa 10 milioni di anni luce dalla Via Lattea. M87 (Virgo A) è una galassia ellittica gigante, visibile nella costellazione della Vergine, con una quantità di stelle molto più elevata di quelle appartenenti alla Via Lattea.

b) Le galassie a spirale (S), si stima siano le più diffuse nell’Universo, hanno le stelle più vecchie verso il centro e quelle più giovani nelle zone periferiche e nei bracci a spirale. Andromeda (M31) è una galassia a spirale che dista circa 2,5 milioni di anni luce da noi ed è l’oggetto celeste più lontano visibile ad occhio nudo (fig. in basso).

c) Galassie a spirale barrata (SB),nelle quali la parte centrale è attraversata da una barra più o meno evidente. Dal 2005, grazie alle osservazioni con il telescopio spaziale Spitzer, è stato scoperto e dimostrato che la Via Lattea è del tipo a spirale barrata, con un diametro di circa 100.000 anni luce e, nel suo rigonfiamento centrale, uno spessore di circa 5000 anni luce. Il sistema solare si trova in una zone periferica denominata Braccio di Orione, distante circa 28.000 anni luce dal centro, dove si trova un buco nero super-massiccio con una gravità enorme, intorno al quale ruote l’intera Galassia.

Di solito le galassie si trovano riunite in gruppi. La Via Lattea, insieme ad Andromeda e ad una ventina di altre galassie costituisce un ammasso denominata Gruppo Locale.

d) Le galassie irregolari non hanno una forma ben definita. Le Nubi di Magellano sono due piccole galassie irregolari che “orbitano “ intorno alla Via Lattea, come se fossero sue satelliti.

Il video presenta le galassie M81 e M82. La galassia M81 fu scoperta da Johann Elert Bode nel 1774, infatti è chiamata anche galassia di Bode. Successivamente, nel 1781, Charles Messier la inserì nel suo celebre catalogo col numero 81, da qui il nome di M81. Si tratta di una galassia classificata come SA secondo la classificazione di Hubble. M82 è una galassia a spirale barrata ed è detta anche galassia sigaro per la sua conformazione allungata.