AMOREVOLI PADRI DI MARE

di Dante Iagrossi

La cura affettuosa ed assidua dei piccoli nati nel mondo vivente era ritenuta da sempre appannaggio totale (o quasi) delle mamme. Invece negli ultimi tempi, per vari motivi, che vanno dai divorzi e separazioni ai lavori prolungati ed impegnativi di una parte delle donne fuori casa, può capitare a qualche papà di occuparsi maggiormente dei propri figli, svolgendo anche più mansioni domestiche, prima riservate alle donne.

Eppure da tempi ben più lunghi, i maschi di alcune specie di pesci dimostrano una particolare e insospettata dedizione verso la popria prole, che si manifesta in particolare nella protezione delle stesse uova, che in varie specie sono lasciate incustodite.

Cavalluccio marino

Innanzitutto, ce ne sono alcuni capaci di “partorire” i figli. L’esempio più noto è offerto dai maschi dei cavallucci marini (Hippocampus Rafinesque), dalla tipica forma curvilinea, che, dotati di una sacca ventrale, il marsupio, vi accolgono le molte uova deposte dalla femmina, circa 2000, di appena 2 mm circa. Esse poi dalla parete interna ricevono cibo fino alla schiusa ed uscita. I padri hanno persino l’accortezza di rilasciarli nei periodi di alta marea, in modo da evitarne la concentrazione in acque più basse.

Pesce mascella

Anche i maschi dei pesci ago, con una forma allungata, sono capaci di partorire. Altri pesci arrivano addirittura ad offrire la bocca come nido, per far stare al sicuro le proprie uova: il pesce mascella con apertura boccale molto grande, e il pesce cardinale.

Invece altri ancora costruiscono nidi particolari: il più originale è forse quello del pesce combattente che li fa con bolle d’aria, ricca di ossigeno, gonfiate a pelo d’acqua, in cui spingono le uova fecondate; ma non basta, diventano talmente ostinati ed aggressivi nella difesa, da respingere persino le mamme e restare da soli, dopo la schiusa!

Pesce combattente

Forse il più forte istinto paterno è quello del pesce pagliaccio, che grazie all’azione di un ormone, l’isoticina, si occupa pazientemente ed accuratamente delle uova in vari momenti: pulizia dai funghi, rimozione di eventuali detriti e immissione frequente di aria ricca di ossigeno. Tutto questo forse gli riesce più semplice che non in mare aperto, avendo a disposizione un posto ben più ristretto, tra gli anemoni di mare in cui si rifugia.

Pesce pagliaccio

In conclusione questi animali, ritenuti spesso meno evoluti e piuttosto insensibili rispetto ad altri vertebrati, ci danno invece esempi notevoli di cure parentali, evidentemente finalizzate alla conservazione della specie, mentre, a volte, la cronaca ci trasmette brutte notizie di bambini abbandonati di notte senza pietà. Crediti fotografici: tech.everyeye.it / sw-ke facebook.com / acquariofilia.org / acquariocomefare.com/

Video sul cavalluccio marino:

Video su pesci pagliaccio del Mar Rosso:

Dante Iagrossi, Caiazzo.

ANFIBI IN PERICOLO

di Dante Iagrossi

Negli anni passati, a primavera si vedevano le acque limpide di fossati e piccoli stagni brulicare di girini guizzanti, spettacolo meraviglioso di vita, simbolo del risveglio della natura, oggi purtroppo divenuto più raro. Sono gli anfibi, soprattutto rane, rospi, salamandre e tritoni, animali a “doppia vita”, che prima appaiono soltanto in acqua, poi anche sulla terra, conservando però il legame con l’acqua, per la riproduzione e per evitare il disseccamento della pelle nuda.

Tra le varie specie strane, l’Axolots non segue le fasi ordinarie della metamorfosi (uovo, girino e adulto), ma rimane sempre allo stato larvale, pur potendosi riprodurre, e resta sempre in acqua, come il Proteo. Inoltre la Cecilia sembra un verme, senza zampe, che si sposta con movimenti ondulatori.

Le rane hanno escogitato diversi modi per la deposizione delle loro uova: in ruscelli, pozze d’acqua occasionali o piccole piscine circolari, sottoterra, in nidi fatti di bolle d’aria; addirittura, per avere un controllo immediato, alcune specie le custodiscono sul loro dorso, dentro sacche marsupiali, o tenendole strette come bende su zampe. Fino a poco tempo fa, un paio di specie (dette a “gestazione gastrica” conservavano le uova nello stomaco, espellendo poi i piccoli dalla bocca; oggi purtroppo risultano estinte, anche se si spera di trovarne ancora in certi posti isolati.

Purtroppo delle oltre 6500 specie note di anfibi, almeno un terzo rischia l’estinzione, anzi tra le classi di vertebrati quella degli anfibi è proprio la più in pericolo. Finora sono infatti circa 90 le specie già estinte, mentre 500 sono diminuite parecchio nell’ultimo cinquantennio. Le cause sono molteplici, dovute soprattutto ad azioni umane sconsiderate:

  1. immissione di specie estranee
  2. cambiamenti climatici: il surriscalmento globale provoca un generale aumento di aridità a fronte della diminuzione di piogge
  3. distruzione di zone umide, molto più frequente della diminuzione del manto forestale
  4. degrado ambientale, per gli scarichi liquidi e solidi nei corsi e bacini d’acqua.
Rana di Darwin (estinta)

Infine negli ultimi tempi si è avuta la diffusione di un fungo patogeno asiatico, dovuta al commercio di specie esotiche, il Batrachiochus chytrium, che provoca una grave malattia, la chitridiomicosi, con una crescente e letale degradazione della cheratina nella pelle. In particolare, non si trovano più le rane d’oro del Panama (Atelopus zeteki), di cui si vendono molte statuette-souvenir, simbolo di fortuna in quel Paese, anche se molto velenose: il veleno di una sola rana potrebbe uccidere circa 1000 topi di media grandezza. Nella zona dove prima vivevano, è attivo il Centro di Conservazione degli Anfibi di El Valle (EVACC), che contiene molte vasche d’acqua, disposte a varie altezze, con varie specie a rischio, come le lemuri, le ladrone, le marsupiali, quelle dal casco e altre d’oro. Si è cercato di ricreare i loro ambienti il più possibile, con tubicini di acqua corrente.

L’importanza ecologica di rane e rospi è notevole, perché questi anfibi da adulti si nutrono di insetti nocivi alle nostre coltivazioni, tanto che sono stati definiti “insetticidi naturali”. Quindi la loro diminuzione provoca l’aumento delle popolazioni di insetti nocivi e la necessità di un maggior impiego di pesticidi, il che comporta un certo aumento di inquinamento.

Rana d’oro del Panama

Per fortuna alcune associazioni ambientaliste, tra cui il WWF, si stanno impegnando in vari modi per fermare questa tendenza pericolosa per l’ambiente e per la nostra stessa salute.

Innanzitutto si cerca di proteggere da scarichi, e persino di ripristinare, le piccole zone umide adatte alla nascita e allo sviluppo degli anfibi. Poi in caso di strade, si controlla il loro passaggio, fermando il traffico: questo succede nel periodo di migrazione dalla zone di letargo a quelle con acque per riprodursi. Infine si controlla la presenza in acqua del gambero rosso, vorace divoratore di uova e girini. Anche noi possiamo segnalare alle autorità locali casi analoghi nelle nostre campagne e altre zone per cercare di salvare le popolazioni di anfibi nel nostro territorio. Crediti per le immagini: scuolarai.it (1 e 2) / alamy.it /rainews.it.

Breve video sulle estinzioni di animali:

Dante Iagrossi, Caiazzo

CIRO, ANTONIO E CUGINI: i dinosauri italiani

di Dante Iagrossi

Fino a pochi decenni fa vari esperti sostenevano che in Italia non si sarebbero mai trovati fossili di dinosauri, animali solo terrestri, perché durante buona parte dell’Era Mesozoica, che è stata contrassegnata dal loro dominio, l’Italia era del tutto sommersa dalle acque. Invece, a partire dal 1980 circa, sono state ritrovate numerose orme e ossa di dinosauri in diverse località lungo la nostra penisola (e fuori): Altamura (Bari), Lavini presso Rovereto (Trento), Trieste, Sezze (Latina), a 50 km da Roma, Lerici (La Spezia), Monti Pisani (Toscana), Capaci (Palermo).

Saltriovenator zanellai

Finora il più grande è stato il Saltriovenator zanellai, teropode ceratosauro, di circa 200 milioni di anni fa, predatore lungo circa 8 metri e pesante una tonnellata e mezza, ritrovato a Saltrio, nei pressi di Varese e ricostruito a partire dalle ossa di un cinto scapolare ed arto.

Ciro

Invece il più piccolo dinosauro, ma anche il più famoso, è Ciro, rinvenuto a Pietraroja, in provincia di Benevento, zona già nota per i fossili di bei pesci tropicali. L’eccezionalità di Ciro è la sua buona conservazione: unico al mondo per avere ancora le masse muscolari nel petto (ed altri muscoli), i vari anelli della trachea e gli intestini completi, con tracce di cibo. E’ presente anche una macchia rossastra sotto le zampe anteriori, forse del fegato. I denti affilati, la finestra anteorbitale, cioè posta davanti all’orbita oculare, con una più piccola, tipica dei Terapodi, indicano che fosse un carnivoro. Al contrario degli uccelli, gli intestini non sono bassi e mancano le sacche aeree per la respirazione. Probabilmente questa avveniva grazie ai muscoli delle costole, mentre il fegato era usato di rinforzo, in particolari situazioni di maggiori bisogni energetici, come in corsa.

Lo scheletro non era del tutto osseo e le piccole dimensioni (circa 50 cm di lunghezza, per un peso di quasi mezzo chilo), dimostrano il fatto che si tratta di un cucciolo, a cui i genitori forse dedicavano cure parentali. Infatti, oltre a cibarsi di insetti e altre piccole prede prese in giro, probabilmente si nutriva anche di altre prede vive o morte, come piccoli rettili e pesci, portate e ammorbidite al nido dai genitori. Da grande sarebbe arrivato ad un paio di metri di lunghezza, ben poco rispetto ai 30 (e più) dei grandi dinosauri. Si ritiene che appartenga all’ordine dei Maniraptora,un gruppo di Celosauri, carnivori bipedi, di cui fa parte anche il famoso Velociraptor del film “Jurassic Park” di Spielberg. Si pensa in generale che i nostri dinosauri abbiano avuto dimensioni ridotte rispetto a quelli in altri continenti, perché vivevano su un arcipelago di isole non molto grandi e con una disponibilità non eccessiva di cibo per erbivori e di conseguenza per carnivori. Tali isole facevano quasi da ponte tra la placca euroasiatica e quella africana.Lo studio approfondito di Ciro è dovuto, insieme al collega Cristiano Dal Sasso di Milano, al paleontologo napoletano Marco Signore, autore di un bel libro autobiografico, tal titolo emblematico “Una vita per i dinosauri”, in cui evidenzia fin da piccolo, dalle Scuole Medie, il suo interesse notevole per questi animali.

Antonio

Tra gli altri sono stati trovati, altrove, anche resti di Sauropodi, dal lungo collo e coda smisurata, Anchilosauri, tozzi, bassi e con corazze dure che li difendevano parecchio dai nemici, Adrosauri, con becco piatto simile alle anatre attuali. Oltre a Ciro un altro fossile italiano di grande valore è Antonio, vegetariano, dei Tethysadros insularis, con il 98 % dello scheletro, il più completo in tutta Europa, di 4 metri di lunghezza, alto 1,30 m, dalla testa grande e allungata come quella dei cavalli, mano dotata di sole tre dita per supporto nel movimento, arti posteriori adatti alla corsa e coda munita di una specie di frusta.

L’importanza dei fossili è davvero fondamentale per la ricostruzione delle varie fasi della vita sulla Terra, poiché essi ci consentono di risalire non soltanto alla fauna, ma anche alla flora caratteristica di quel periodo e quindi di ricostruirne a grandi linee anche l’ambiente ed il clima tipici. Inoltre, se sono animali scomparsi, essi possono riportarci ai momenti cruciali delle grandi estinzioni, che hanno influito in modo rilevante sul percorso stesso dell’evoluzione, poiché certe specie non hanno saputo adattarsi ai rapidi e drastici cambiamenti ambientali. Crediti immagini: repubblica.it/ it.wikipedia.it/ discover-trieste .it

Video su Ciro, con il geologo Mario Tozzi:

Video con intervista al paleontologo Marco Signore, in occasione di una importante mostra sui dinosauri:

Dante Iagrossi, Caiazzo

BIZZARRE INVENZIONI DELL’EVOLUZIONE

di Dante Iagrossi

L’evoluzione dei viventi è come un catalogo sterminato, di cui conosciamo finora solo una parte limitata di pagine. Sempre da aggiornare, con vari fogli intermedi da inserire. Persino certe acquisizioni e conoscenze, che da tempo sembravano sicure ed ovvie, adesso sono in qualche parte forse da correggere, se non da cancellare del tutto. Certamente la natura ci riserva una galleria fantasmagorica di organi insoliti, forme affascinanti e colori sgargianti: colli molto lunghi, strisce zebrate, ruote panoramiche, corna ramificate e tanto di più.

Giraffa adulta

I colli delle giraffe, che arrivano ai 2 metri di lunghezza, svettano davvero tra i cespugli bassi e i radi alberi della savana. A partire dal 1872, anno della sesta edizione dell’Origine delle specie di Darwin, sembrava accettata da tutti la spiegazione: con colli così sviluppati, le giraffe possono raggiungere più facilmente le foglie degli alberi di cui si nutrono. Invece alcuni studiosi oggi sostengono che i colli sono anche molto robusti, in grado addirittura di assestare colpi micidiali, persino mortali, nelle contese tra maschi alla conquista di femmine. Queste avrebbero colli solo un po’ meno lunghi dei maschi per una certa “correlazione genetica”.

Molto più controversa la funzione delle strisce delle zebre: sono state finora avanzate almeno 8 diverse teorie, di cui quattro più attendibili. Le strisce presentano forme e densità diverse a seconda dell’animale, per cui potrebbero servire al riconoscimento individuale. Secondo altri, esse in moto provocano disturbi ottici, tali da confondere i predatori. Fino a qualche anno fa sembrava accettata l’ipotesi della dispersione di calore, causata dalla diversa capacità di assorbimento di calore tra nero e bianco riflettente, da cui lievi correnti d’aria in uscita. Di recente il biologo Tim Caro dell’Università della California, autore di un libro ben documentato, “Zebra Stripes”, ha scoperto che le strisce delle zebre sono più presenti nelle zone in cui i tafani sono più pericolosi, in grado di morderne in profondità la pelle sottile, succhiandone il sangue e provocando gravi malattie (peste equina), a volte persino mortali. Si è notato che i tafani pur avvicinandosi parecchio, se ne allontanano spesso come disorientati e respinti dalla maggiore concentrazione di strisce bianche.

Zebra con puledro
Pavone con ruota

La ruota bellissima esibita dai pavoni nella stagione degli amori non è più considerata da alcuni etologi come esposizione di bellezza per conquistare le femmine, bensì come manifestazione impressionante di possenza fisica, aumento abnorme di dimensioni, tale da scoraggiare altri pretendenti. Del resto anche i maschi delle fregate gonfiano a dismisura le loro gole in rosso, forse per aumentare la propria minacciosità e potenza fisica, non tanto per fini estetici da accentuare. Allo stesso modo, sempre in senso ampio, si potrebbero giustificare anche i maestosi palchi di tessuto osseo esibiti dai cervi, generalmente creduti per scopi difensivo e attrattivo per le femmine.

Maschio di Fregata

In conclusione, spesso siamo portati erroneamente a credere che gli animali abbiano criteri estetici simili ai nostri e che ci sia una sola ragione per la presenza di certe caratteristiche, ma essi potrebbero agire secondo istinti e ragioni che non sempre possiamo capire del tutto. Quindi appare fondamentale la considerazione di più ipotesi, il confronto su più punti di vista possibili e soprattutto l’esecuzione di vari esperimenti mirati, prima di trarre conclusioni più accettabili e coerenti.

Libro di riferimento: “Il torcicollo della giraffa” (L’evoluzione secondo gli abitanti della savana) di Léo Grasset (ed. Dedalo). Crediti immagini: veterinari.it / thetimes.co.uk / laterranatura.wordpress.com / wikipedia.org

VIDEO su Lotta tra maschi di giraffa in Sudafrica:

Dante Iagrossi, Caiazzo

L’UCCELLO ESTINTO E L’ALBERO RICOMPARSO

di Dante Iagrossi

Mammut feroci, pinguini giganti, tigri con denti enormi, elefanti pelosi… Sono solo alcuni dei tanti animali del passato che si sono estinti, sia prima che dopo l’arrivo dell’uomo sulla Terra. Scomparsi, o per gravi calamità naturali, come glaciazioni improvvise o altri eventi climatici estremi, o per interventi negativi umani, diretti, come la caccia eccessiva, e indiretti, come l’inquinamento e il deterioramento dei loro ambienti di vita. Purtroppo questa tendenza pericolosa continua ancora oggi e molte altre specie viventi, sia vegetali che animali, vanno scomparendo.

Esemplare di Dodo

Ad esempio da circa tre secoli e mezzo non c’è più il Dodo, uno strano pennuto tipo piccione, pesante, non più capace di volare, piuttosto lento e goffo, (in portoghese il suo nome significa “sempliciotto”), spesso affamato, che si trovava soltanto nelle isole Mauritius, al largo del Madagascar. Aveva un singolare becco ricurvo ad uncino, che gli permetteva di aprire le noci di cocco, belle penne molto ricercate e zampe gialle. Oltre a quello comune, c’era pure il bianco, nella sola isola di Réunion.

Purtroppo i Portoghesi nel ‘600, oltre a cacciare questi docili animali, penalizzati anche dalla mancanza di volo e dai nidi fatti a terra, introdussero maiali, cani e topi, che ne divennero predatori. L’estinzione del Dodo si colloca nella seconda parte del 1600. Questi animali in precedenza avevano vissuto senza grossi problemi nel loro ambiente naturale, dove si alternava una stagione secca ad una umida, in cui essi facevano riserva di grassi. Si nutrivano in particolare dei frutti di un albero tipico di quelle isole, la Calvaria major, i cui semi racchiusi da un involucro durissimo, nel passaggio attraverso i loro organi digerenti, si ammorbidivano e, portati più lontano dalle feci, potevano facilmente germogliare. Quindi si era stabilita una vera relazione di simbiosi tra Dodo e Calvaria. Allora, quando si notò che gli esemplari di Calvaria erano tutti molto antichi, risalenti al 1700, se ne dedusse che ciò fosse legato all’estinzione dell’uccello, dello stesso periodo.

Calvaria major, foglie e semi

Il provvedimento fu di far fare lo stesso “lavoro” dei Dodo ai piccioni moderni, in modo che i semi vecchi, una volta ammorbiditi, potessero permettere poi lo sviluppo di alberi nuovi. Per il ritorno dei Dodo, non è però ancora detta l’ultima parola. Infatti alcuni ricercatori, utlizzando le nuove tecniche di ingegneria genetica, vorrebbero tentarne la “de-estinzione”. Non è affatto facile: con la tecnica del CRISPR del genoma, bisognerebbe raccogliere frammenti di DNA dell’uccello dai pochi resti disponibili, ricomporli e poi introdurli in punti precisi del DNA dei nuclei nelle uova di una specie affine di oggi, come il piccione, dopo averne estratto le parti corrispondenti. In questo modo si potrebbero riavere alcune caratteristiche peculiari del dodo andate perse. Tale procedura si potrebbe fare per i mammut e persino per l’uomo di Neanderthal, mentre è già iniziata per una particolare rana, la Rheobatractus silus, che risulta estinta di recente in Australia negli anni ‘80 del secolo scorso: aveva la straordinaria capacità di far sviluppare le uova, prima ingerite, nel proprio stomaco fino allo stadio adulto. Purtoppo il tentativo di riproduzione si è fermato allo stadio di gastrulazione. Molti oppongono remore di tipo morale e di ordine anche pratico: ormai gli ecosistemi sono cambiati e ci sarebbero grosse difficoltà di riadattamento, quindi sarebbero pratiche inutili e fini a se stesse. Secondo altri invece, permetterebbero lo studio interessante di animali che non ci sono più.

Ancora una volta è da deprecare l’impatto devastante dell’uomo, portatore solo in apparenza di civiltà, ma in realtà, a volte causa di rottura di equilibri ecologici assestati nel tempo, con conseguenti danni irreversibili sulla biodiversità. Crediti immagini: it.Wikipedia.org/, postsritzum.it .

Simpatico video animato, con interventi del prof. Telmo Pievani:

Dante Iagrossi, Caiazzo

I MOLTEPLICI RAPPORTI TRA PIANTE E INSETTI

di Dante Iagrossi

Il lungo percorso della vita sulla Terra è contrassegnato da una fitta rete di relazioni tra le varie specie, solo in parte esplorata, anche perché molti organismi risultano estinti (e tanti altri ancora da scoprire). Storie straordinarie e insospettate di amicizie serrate, scontri micidiali e camuffamenti astuti, determinate dalla continua lotta senza esclusione di colpi per l’esistenza. Un testo uscito di recente davvero illuminante ed accessibile è “Piante e insetti”, di due coniugi pugliesi, Nicola Anaclerio e Maria Elena Rodio, entrambi docenti di Scienze. I rapporti complessi e variegati tra vegetali ed insetti sono esplorati in maniera rigorosa, ma divulgativa, con spunti divertenti, mediante un’opportuna suddivisione, un buon numero di esempi significativi e con bei disegni.

L’evoluzione dei viventi, iniziata nel brodo primordiale, ha poi visto l’affrancamento dalle acque marine per arrivare alle piante terrestri ed agli insetti, che via via hanno sviluppato stretti legami tra loro e particolari adattamenti alle condizioni specifiche dei vari ambienti.

Fondamentale il viaggio di Darwin, che dalle molte osservazioni trasse i concetti-base e le prove decisive per la sua teoria sull’evoluzione dei viventi per selezione naturale, esposti nelle opere fondamentali “Origine delle specie” ed “Origine dell’uomo”, che all’epoca, metà 800, fecero davvero un gran polverone, contraddicendo alle tesi creazioniste della Chiesa ufficiale.

Orchidea cometa

Ma Darwin è stato anche un grande e appassionato botanico, che scoprì nuove specie vegetali e ne studiò anche la riproduzione. Egli intuì tra l’altro che l’Orchidea cometa del Madagascar, avendo uno sperone molto lungo, di ben 25 cm, doveva essere impollinata da una farfalla dotata di una spiritromba di lunghezza analoga, che poi fu effettivamente scoperta: la Sfinge di Morgan.

Senza le api ed altri insetti non sarebbe possibile l’impollinazione del 70% delle nostre coltivazioni: i fiori delle piante offrono nettare agli insetti amici, che in cambio, come postini ricompensati con dolcetti, imbrattandosi di polline, provvedono alla loro impollinazione incrociata.

Eppure ci sono tanti insetti che si nutrono di varie parti delle piante, cioè di linfa (afidi, cimici e cocciniglie), foglie (cavallette, farfalle), e legno (punteruolo delle palme, larve di farfalle e coleotterri, termiti). Inoltre vari insetti attaccano derrate di cibo sia vegetale che animale.

Ma le piante non restano certo passive all’attacco degli insetti nemici: adottano notevoli e specifiche strategie difensive, di tipo meccanico e chimico. Alcune arrivano persino ad allearsi con i nemici dei loro predatori, offrendo ad esempio a certe formiche alloggio e cibo, cioè nettare extrafoliare, con proprietà di droghe, capaci cioè in qualche misura di renderli persino dipendenti.

Addirittura le piante carnivore hanno creato varie strutture subdole ed efficaci per attirare gli insetti e nutrirsene, assimilando da essi un necessario apporto di azoto, che invece scarseggia nel loro ambiente. La Dionea muscipla possiede foglie composte da due lobi (ai bordi dei quali ci sono prolugamenti spinosi), che posseggono una sostanza zuccherina: tagliole che si chiudono a scatto, appena l’insetto tocca un paio di peletti sui lobi. Le Drosere, con circa 200 specie, presenti anche in Italia, invece sono dotate di foglie a racchetta di ping pong o molto sottili, tipo spaghetti. La Sarracenia e la Nepenthes presentano foglie tubolari, ascidi, eretti e penduli, anche di 50 cm di profondità, dalle pareti molto lisce: gli insetti, attratti e storditi dal nettare dolce e alcaloidi sul bordo, scivolano sul fondo, dove un liquido ricco di enzimi digestivi che ne consumano il corpo. Molti insetti sono veri e propri maestri di mimetismo, per difesa da predatori, di cui esistono varie forme:

batesiano (di inganno): mosche e farfalle che imitano vespe, o che producono feromoni di api;

muleriano (di avvertimento): colori vistosi, giallo, rosso e nero, per accenturare la pericolosità;

criptismo: insetti con colori e forme del corpo che sembrano foglie, fiori e rametti. L’esempio più noto è l’insetto stecco, che spesso non si riesce a distinguere sulle piante dove si trova.

Insetto stecco su rametto

La Biston betularia, falena delle betulle, si è in qualche modo evoluta grazie alla rivoluzione industriale inglese: inizialmente di colore chiaro sui tronchi bianchi, al loro progressivo annerirsi per fuliggine, dovuta all’inquinamento atmosferico, in pochi anni hanno mostrato una variante scura per mimetizzarsi meglio. A loro volta, varie piante hanno adottato mimetismo d’inganno per favorire l’impollinazione: con odori putrescenti attirano ditteri (Arum, Aristolochia, Amorphophallus), altre che imitano vespe femmine per attirare i maschi, che così si imbrattono del loro polline (Ophrys bombyflora). Altre piante ancora addirittura sembrano sassi.

Purtroppo vari insetti sono dannosi per alberi e piante coltivate e l’uomo ha dovuto ricorrere a molti tentativi chimici per cercare di annientarli; questi però sono stati piuttosto negativi per l’ambiente e la nostra stessa salute. Quindi si ricorre da tempo all’agricoltura biologica, con insetti predatori di quelli nocivi,o a piante transgeniche, più resistenti.

Negli ultimi tempi molto grave è risultata anche la decimazione di ulivi pugliesi ad opera di un batterio, la Xylella fastidiosa, veicolata da un insetto, la sputacchina, con stadi giovanili immersi in massa schiumosa. Da un lato si sta cercando di limitarne l’epidemia, insieme ad un costante monitoraggio, dall’altro si ricorre a varietà di olivo resistenti geneticamente al batterio, come la Leccino. I risultati sono promettenti.

Comunque sia le piante che gli insetti ci possono aiutare a proteggere, a migliorare il nostro ambiente di vita e persino il nostro modo di alimentarci. Ormai già ben due miliardi di persone si nutrono di 1900 specie di insetti, come cavallette, formiche, larve di lepidotteri e coleotteri: se noi occidentali superiamo un certo disgusto iniziale, potremmo abituarci anche alla “carne” di cavalletta, poverissima di grassi e ricca di proteine, sali minerali e vitamine!

Alla fine, in ogni caso, dobbiamo renderci conto che le piante e gli insetti sono fondamentali per la nostra sopravvivenza e quella degli altri organismi. In natura, infatti, tutti i viventi sono collegati e interdipendenti tra loro. Nel caso di insetti particolarmente nocivi, bisogna adottare strategie adeguate e non controproducenti, che molto spesso è la natura stessa ad offrirci. Fonti fotografiche: https://www.ibs.it/ In stock/ https://www.euganeamente.it/ https://www.teleambiente.it/ .

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Video su LOTTA BIOLOGICA:

Dante Iagrossi, Caiazzo

Mercurio a colori ripreso da Messenger

Anni fa la sonda Messenger ha fotografato migliaia di volte la superficie di Mercurio a differenti latitudini mentre era in orbita intorno ad esso. Era il 2011 e Messenger inviava sulla Terra dati e foto del primo e più piccolo pianeta del Sistema solare, distante mediamente dal Sole soli 50 milioni di km. La Terra è distante dal Sole 150 milioni di km circa, cioè una Unità Astronomica (UA). Ma su Mercurio e Messenger vedi anche il post “Mercurio fotografato da Messenger” del 2013.

Questa volta vi presento un brevissimo (15 secondi) filmato elaborato dalla NASA con la superficie di Mercurio a colori. Il filmato è il risultato di un mosaico di migliaia di immagini prodotte dalla fotocamera grandangolare a bordo di Messenger. L’elaborazione al computer ha permesso di ottenere colori differenti dovuti alla diversa capacità riflettente del suolo di Mercurio, a sua volta dovuta alla diversa composizione e alla differente età dei materiali che formano la superficie del pianeta.

Ad esempio, i colori bianco e con le diverse gradazioni di azzurro rappresentano materiali (crateri da impatto e polveri) di formazione più recente. Crediti: https://www.nasa.gov/ .